Evolution never sTOPS!
Anello mancante e fossile vivente: due cavalli di battaglia dei negazionisti dell'evoluzione
L’uso improprio dei termini “anello mancante” e “fossile vivente”: perché sono concetti fuorvianti nella paleontologia e nella biologia evolutiva.
LA DICITURA CORRETTA
8/28/20254 min leggere
Questi due termini sono utilizzati ogni tanto sia in ambito divulgativo che scientifico, e recentemente mi è capitato di avere una “discussione”, se così si può chiamare, con un autore perché ha utilizzato il termine anello mancante per un fossile molto antico. Ho letto la ricerca e spiegano benissimo anche questo concetto, ma il più delle volte le persone imparano solo il termine, costruendo attorno false informazioni scientifiche, soprattutto se si parla di evoluzione umana e del “fantomatico” anello mancante. Spoiler: non esiste.
In paleontologia questo termine, se “giustificato”, ha una sua valenza scientifica ma, in generale, soprattutto nel campo della biologia evolutiva e della paleoantropologia, è un termine in disuso e fuorviante.
Questo concetto nasce nel XIX secolo ed è stato utilizzato per spiegare il passaggio da una forma all’altra, per esempio tra la “scimmia” e l’essere umano. Il pitecantropo di Eugène Dubois, in seguito diventato Homo erectus, risultava un ottimo “anello di congiunzione” tra i due mondi, questo perché all’epoca c’era la necessità di trovare un “anello mancante”, un ponte che potesse “giustificare” il collegamento tra i due mondi. Del resto, lo indicava anche il suo nome: Scimmia-uomo.
Come ben sappiamo, la storia evolutiva di qualsiasi organismo può essere rappresentata come un cespuglio ramificato, una sorta di groviglio dove si diversificano gruppi senza necessariamente essere discendenti diretti. Anche considerando un solo ceppo, mancheranno sempre degli “anelli”, cioè “tappe” di evoluzione (cambiamento, trasformazione) di una specie in un’altra. Anche se sostanzialmente non esistono tappe o punti di arrivo nell’evoluzione biologica, in quanto un organismo muta continuamente.
La fossilizzazione è un fenomeno molto raro, ed è naturale che non tutte le forme intermedie si siano conservate. Chi nega l’evoluzione cerca di trarre vantaggio dall’apparente assenza di “forme di transizione” tra le varie specie, per contrastare la veridicità della teoria. Ma di queste forme ne sono state trovate a volontà dai paleontologi, come l’Archaeopteryx, un uccello che possiede caratteristiche rettiliane e che mostra come da un gruppo di dinosauri si sia evoluto il lignaggio degli uccelli. L’animale era stato descritto già all’epoca di Darwin, e successivamente sarebbero seguite numerose scoperte di forme intermedie.
I numerosi fossili che testimoniano l’evoluzione umana, tutti quelli che circondano il pitecantropo, non sono altro che un insieme di individui che costituiscono un mosaico di caratteri derivati e arcaici. È difficile collocarli gli uni rispetto agli altri ed essi sono troppo numerosi per rappresentare una sola catena. Il problema non è la mancanza di anelli mancanti, ma la loro eccessiva abbondanza.
Un altro termine che si collega benissimo a quello di “anello mancante” è fossile vivente, ed è molto più problematico del primo. Anche qui dobbiamo specificare che esistono autori scientifici che lo utilizzano nei loro lavori, ma se non è giustificato risulta essere un termine divulgativo fuorviante, usato per indicare un organismo che sostanzialmente non è mutato da milioni di anni (conoscerete tutti il Celacanto, il “fossile vivente” per eccellenza). Molti, per esempio, scrivono: “questo è un fossile vivente, è rimasto immutato per milioni di anni”. Ciò rende evidente quanto questo termine sia problematico e che andrebbe eliminato dal linguaggio comune perché non è scientificamente corretto. È come se si indicasse un organismo che è rimasto tale e quale ai suoi antenati, senza subire cambiamenti (evoluzione = cambiamento).
Questo errore deriva dal fatto che siamo abituati a vedere solo cambiamenti fenotipici e morfologici, come se i cambiamenti fossero solo esterni e non interni. Uno scorpione, morfologicamente, è cambiato pochissimo in 300 milioni di anni, ma geneticamente e fisiologicamente i cambiamenti sono continui, e uno scorpione di oggi è già diverso da uno di mille o di un milione di anni fa.
Un organismo, per essere considerato “fossile vivente”, dovrebbe possedere qualità genetiche e fisiologiche immutate nel tempo.
Living fossil è un termine coniato da Darwin per indicare organismi, sia animali che vegetali, che presentano caratteristiche anatomiche e morfologiche “primitive”. Il problema è che un organismo evolve/muta (cambia) in continuazione, sia morfologicamente che fisiologicamente e geneticamente. La caratteristica di un “fossile vivente” è proprio la preservazione di certi caratteri arcaici che non sono andati perduti nel corso dei milioni di anni e che apparentemente non sembrano aver subito modificazioni. Ma queste ci sono sempre, anche se piccole. Basta confrontare un Celacanto del Cretacico e uno moderno: molte caratteristiche, seppur arcaiche, presentano modificazioni.
Per esempio, i celacanti del Mesozoico presentano polmoni con pareti ossificate, cioè placche ossee che supportavano il polmone a grandi pressioni, creando una sorta di camera “antipressione” per mantenerlo integro. Nei celacanti odierni, invece, queste placche sono molto ridotte e non hanno più un ruolo prominente, eppure riescono comunque a raggiungere profondità elevate (almeno 100 m).
Si potrebbero elencare altre caratteristiche morfologiche, ma voglio spezzare una lancia a favore di chi utilizza il termine: se si considera solo la morfologia, è giustificabile parlare di “fossile vivente”, perché le modificazioni sono piccole e minime, e osservando in linea generale una persona qualsiasi potrebbe dire “tutto sommato non è cambiato tantissimo”. Il problema è a livello fisiologico e genetico: ogni organismo muta internamente e continuamente, e queste modificazioni, purtroppo, non si conservano. È possibile recuperare frammenti di genoma in reperti antichi fino a 1–1,5 milioni di anni, ma oltre no. E sappiamo benissimo che, anche se non avvengono modificazioni esterne evidenti, internamente l’organismo si modifica continuamente.
Per esempio, indichiamo con Homo sapiens anatomicamente moderno antichi fossili umani appartenenti a individui della nostra specie vissuti migliaia di anni fa. Anatomicamente parlando, se confrontassimo un sapiens arcaico e uno moderno, non troveremmo grandi differenze (se non piccole modificazioni), ma a livello genetico sappiamo che un sapiens odierno è diverso da uno di 100, 1000 o 10.000 anni fa. Tuttavia, non definiamo Homo sapiens, la nostra specie, un “fossile vivente”. Lo stesso vale per organismi odierni che sembrano uguali ai loro antenati antichi, come gli scorpioni, che morfologicamente sembrano rimasti gli stessi da 300 milioni di anni.
Di certo i celacanti odierni, con placche polmonari molto ridotte rispetto a quelle dei loro antenati mesozoici, riescono comunque a vivere a grandi profondità e, fisiologicamente, risultano molto diversi.
Si dà l’idea che non avvenga nessuna mutazione e che questi organismi siano rimasti tali e quali per lunghissimo tempo, rimandando a una sorta di fissità della specie. Questo rientra nel concetto di evoluzione stabilizzante.
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