Evolution never sTOPS!

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Ci sono "troppe" specie umane

L'alto numero di taxa proposti riflette spesso variabilità intraspecifica. L'Unified Species Concept integra criteri morfologici, genetici e temporali per una delimitazione più rigorosa delle specie fossili.

IL GENERE 𝘼𝙪𝙨𝙩𝙧𝙖𝙡𝙤𝙥𝙞𝙩𝙝𝙚𝙘𝙪𝙨IL GENERE 𝙃𝙤𝙢𝙤I PRIMI OMININI: CURIOSITÀ E INFORMAZIONIPARANTHROPUS𝙋𝙖𝙧𝙖𝙣𝙩𝙝𝙧𝙤𝙥𝙪𝙨 𝙧𝙤𝙗𝙪𝙨𝙩𝙪𝙨: NOTIZIE E CURIOSITÀ

9/27/20257 min leggere

Negli ultimi anni, fuori da ogni logica tassonomica, stanno spuntando molte specie umane che non sono propriamente valide. In genere, in paleontologia si stanno applicando nuove strumentazioni e nuove conoscenze che mirano a “ridurre” il numero di specie, o meglio a conservare tante specie in una (o poche), perché di mezzo potrebbe esserci variabilità morfologica, genetica, e alcuni caratteri potrebbero essere stati deformati da processi tafonomici e di fossilizzazione. Insomma, non si utilizza più il vecchio metodo: “c’è una caratteristica diversa, allora si tratta di una nuova specie”. Purtroppo, l’evoluzione umana, almeno in certi paesi, è considerata molto importante e prestigiosa, e poter dire “ho scoperto una specie umana” non solo ti fa salire sull’Olimpo dei ricercatori, ma fa ricevere purtroppo qualche soldo in più. Naturalmente, mi riferisco a specie quali Homo longi, Homo bodoensis e Homo juluensis. Anche un naturalista alle prime armi capisce che queste specie non sono propriamente valide, ma sono comunque importanti e interessanti perché testimoniano la grande variabilità morfologica degli ominini degli ultimi 300.000 anni.

Ma andiamo con ordine. I fossili di ominini, in generale, mostrano una maggiore variabilità morfologica nel Tardo Quaternario, tra i 300.000 e i 50.000 anni circa, in Asia orientale rispetto al passato. Questa maggiore variabilità è dovuta, anche se abbiamo poche prove genetiche in merito, a molteplici introgressioni e dispersioni. Ciò che emerge negli ultimi decenni è che furono tante le popolazioni umane a spostarsi un po’ ovunque, e non si esclude che possano esserci stati accoppiamenti tra specie e/o popolazioni differenti, un po’ come accaduto per la triade Denisova–Neanderthal–Sapiens. Insomma, tante popolazioni si sono susseguite nel corso del tempo, alcune hanno sostituito altre, come nel caso dell’Out of Africa, ecc.

Come detto prima, la tendenza dei primi paleontologi era quella di attribuire facilmente nuovi nomi, ma dopo il 1950 la tendenza è stata quella di “unire” i fossili, e molti di essi vennero assegnati a Homo erectus, Homo sapiens arcaico e Homo sapiens moderno. Tra i principali taxa asiatici abbiamo Homo floresiensis (190.000–50.000 anni circa, isola di Flores) e Homo luzonensis (67.000–50.000 anni, Filippine), specie insulari. Le specie che hanno creato problemi non da poco sono Homo longi, rinvenuto in Cina (309.000–138.000 anni), e Homo juluensis (Denisova, Siberia; range 200.000–260.000 anni). E le specie e i gruppi già ampiamente conosciuti e descritti: Homo neanderthalensis, Homo erectus, Homo sapiens e Denisova.

Tralasciando le varie assegnazioni, il numero di taxa in tutto il mondo negli ultimi anni sta comunque crescendo, con alcune specie valide, altre no, mentre altre sono ancora sotto la lente d’ingrandimento dei ricercatori. Il motivo è che, anche senza contare specie non propriamente valide come H. bodoensis, H. longi e H. juluensis, l’alta variabilità entra (giustamente) in contrasto con un’evoluzione lineare. Ma il problema è che alcune specie non hanno ancora una collocazione all’interno del grande cespuglio degli ominini, come nel caso di Homo naledi.

Ed è qui che entra in gioco uno studio del 2024, che cerca di fare un po’ di ordine (o confusione), prendendo in considerazione anche gli ominini pre-Homo.

I ricercatori, in primis, muovono una critica contro il Phylogenetic Species Concept (PSC), una metodologia molto utilizzata in paleoantropologia. In sostanza, secondo la PSC, è considerabile come specie un gruppo di individui che condivide una storia evolutiva comune ed è geneticamente o morfologicamente distinguibile da altri gruppi. Questi gruppi devono formare un ramo separato (clade) sull’albero evolutivo (filogenetico) e possedere almeno un carattere diagnostico esclusivo (genetico, anatomico, ecc.) che li differenzia da tutte le altre specie.

Quindi questo approccio dice che ci troviamo davanti a specie differenti se i gruppi fossiliferi mostrano caratteri morfologici distinti. Ma, come ben sapete, la morfologia può cambiare nel tempo all’interno di una popolazione (variabilità intraspecifica), rendendo così “non appartenenti alla stessa specie” gruppi che presentano morfologie differenti, sovrastimando così il numero di specie nel record fossile.

Purtroppo, questo problema riguarda fossili relativamente recenti, perché sono più frequenti e diffusi, si considerano range temporali più “precisi”, con errori di datazione che abbracciano al massimo le migliaia di anni, senza contare che con le moderne tecniche legate al DNA possiamo fare studi più approfonditi sulle varie parentele. Per questo, anche il concetto di specie può creare qualche problema. In generale, chi si occupa di DNA antico e di paleontologia conosce almeno due definizioni di specie (senza contare che ne esistono almeno una decina che variano in base al campo di studi):

  • specie morfologica, quella largamente usata in paleontologia, basata sulle somiglianze;

  • specie biologica, basata su aspetti del tutto genetici (considerando anche processi come inbreeding, introgressione, ecc.).

Ed è per questo che gli autori propongono un approccio diverso, con un “nuovo” concetto di specie: lo Unified Species Concept. La USC è stata proposta da Kevin de Queiroz (2005, 2007), e secondo lui una specie è una linea genetica indipendente che evolve separatamente da altre. Quindi, non ci si baserebbe su un unico criterio come l’isolamento riproduttivo, la genetica o la morfologia, ma si considererebbero tutti questi criteri per identificare una nuova specie. Anche se c’è da dire che è difficile da applicare ai fossili in generale, questo perché il Concetto Unificato di Specie afferma che c’è una sola specie in senso ontologico (linea evolutiva indipendente), ma diversi criteri epistemologici per identificarla.

Le specie, quindi, andrebbero considerate come linee temporali, non come insiemi statici di tratti morfologici. E questo è giustissimo, perché evoluzione è sinonimo di cambiamenti, e questi cambiamenti avvengono in modo continuo, soprattutto a livello genetico e fisiologico, e ciò non esclude la morfologia. Insomma, il concetto di speciazione non andrebbe visto come un fenomeno finalistico, come una sorta di “prodotto finale”, ma come un fenomeno continuo. Quando prendiamo in mano un fossile, abbiamo solo una fotografia di un individuo appartenente a una certa popolazione vissuto in un certo periodo, tranne nei casi in cui si tratti di individui vissuti e sepolti assieme. Di conseguenza, la variazione morfologica nei fossili non indica necessariamente specie distinte, ed è per questo che è necessario integrare in campo paleontologico morfologia e cronologia per testare se si tratta di una sola specie o meno.

Inoltre, come riportato da Herries et al. (2020), vissero 2 milioni di anni fa ben tre generi di ominini: Homo erectus, Paranthropus robustus e Australopithecus sediba; considerando che A. sediba è stato ritenuto l’antenato comune tra Homo e Paranthropus. Qui entriamo nel vivo del concetto di budding: una nuova specie si separa da una linea ancestrale che continua a esistere. Questo modello implica la coesistenza di specie ancestrali e derivate, complicando la tassonomia se ci si basa solo sulla morfologia. Naturalmente, ha senso se i morfotipi distinti e contemporanei vissero nello stesso luogo; se la geografia è rilevante, si può nuovamente parlare di specie diverse (dipende dalla situazione).

Entriamo nel vivo della critica all’uso del Phylogenetic Species Concept (PSC), che tende a sovrainterpretare la variazione morfologica limitata come indicatore di specie distinte. Il problema è che molte specie recenti si basano su pochi resti frammentari e il confronto avviene tra individui, non tra popolazioni. Specie come Sahelanthropus tchadensis, Kenyanthropus platyops, Australopithecus garhi, ecc., sono state descritte a partire da pochissimi resti, e risulta difficile valutare se vi sia stata una variazione intraspecifica. Ma la situazione cambia se si considera il Pliocene medio (circa 3,6–3,2 milioni di anni fa), dove i resti e gli individui risultano essere più numerosi e meglio conservati.

La specie Au. afarensis è ben documentata da centinaia di fossili e, in generale, è considerata come un singolo segmento lineare. I fossili di Lomekwi (attribuiti a Kenyanthropus platyops) e di Woranso–Mille (Au. deyiremeda) mostrano alcune caratteristiche uniche, ma basate su resti distorti o frammentari. Qui la diagnosi si fonda su combinazioni insolite di tratti e su individui singoli, ma senza una conferma che riflettano popolazioni differenti.

Vediamo altri possibili “cambi di scenario” applicando l’USC:

  • Ardipithecus ramidus potrebbe rappresentare tutte le specie considerate basali;

  • Ar. ramidus e Au. anamensis sono specie cronologicamente separate, ma potrebbero rappresentare una linea singola, con anamensis potenzialmente contemporaneo ai primi afarensis (divergenza);

  • Le australopitecine potrebbero essere suddivise “semplicemente” in australopitecine gracili (afarensis, africanus, platyops) e australopitecine robuste (Paranthropus), derivanti o da Au. africanus o da K. platyops;

  • H. erectus è tradizionalmente considerato una specie globale, ma le popolazioni africane e asiatiche mostrano differenze morfologiche. Pertanto, anche H. erectus potrebbe rappresentare una metapopolazione ampia, con variazioni morfologiche legate alla geografia, senza necessità di separarla in più specie, come tuttora fanno alcuni paleoantropologi, distinguendo tra specie africana (Homo ergaster) e H. erectus asiatico. Questa linea persiste per almeno 1,5 milioni di anni.

Se si volesse tracciare una linea retta (per semplificare la linea genealogica), si avrebbe:

  • H. sapiens ← H. heidelbergensis ← H. erectus ← H. habilis ← Au. africanus o K. platyops ← Au. afarensis ← Ar. ramidus. Altri ominini come Homo naledi, Homo floresiensis, Paranthropus spp. e le specie asiatiche potrebbero rappresentare dei “rami collaterali”.

  • Homo sapiens e H. neanderthalensis sono considerati specie distinte.

  • Alcuni fossili iconici come Au. africanus (Sterkfontein), Au. sediba (Malapa), H. habilis (Koobi Fora, Olduvai), Au. afarensis (Hadar) sono troppo recenti per essere antenati diretti del genere Homo, e possono rappresentare linee parallele o vicoli ciechi. Tuttavia, è possibile che forme più antiche degli stessi gruppi (non ancora scoperte) siano effettivamente antenati diretti.

In conclusione, è interessante anche vedere un esempio concreto: la creazione di una nuova sottospecie di Paranthropus robustus. I nuovi ritrovamenti, provenienti da Drimolen Main Quarry (DMQ), rappresentano un ottimo caso per applicare il concetto di “segmenti di linea”.

Gli esemplari di Paranthropus robustus provenienti da DMQ sono morfologicamente distinti da quelli trovati in altri siti sudafricani come Swartkrans (SWM1HR) e Kromdraai B (KBM4–7). Tali differenze, in passato, sono state interpretate come dimorfismo sessuale marcato, attribuito a fattori quali:

  • sviluppo più lento nei maschi,

  • alta competizione tra maschi,

  • mortalità selettiva da predazione,

  • bias tafonomico nei diversi siti.

I recenti ritrovamenti di maschi adulti da DMQ presentano morfologie “femminili”, incompatibili con l’ipotesi del solo dimorfismo sessuale. I siti DMQ, SWM e KBM si trovano entro 6 km di distanza, quindi la variabilità non può essere attribuita a fattori geografici. Tuttavia, c'è una differenza cronologica: DMQ è più antico (2,04–1,95 Ma), mentre SWM e KBM sono più recenti. La variazione è quindi strutturata nel tempo, coerente con l’esistenza di segmenti di linea successivi all’interno di una stessa specie.

Gli autori propongono quindi una nuova sottospecie: Paranthropus robustus ukusa subsp. nov. Questa sottospecie rappresenta il segmento basale della linea evolutiva di P. robustus e si propone che P. r. ukusa sia l’antenato diretto della sottospecie più recente P. r. robustus. Infatti, P. r. ukusa si distingue dall’altra sottospecie per via di:

  • radice zigomatica più posteriore;

  • porzioni petrose dell’osso temporale più sagittali;

  • margine sopraorbitario più arrotondato;

  • cresta sagittale che origina dai parietali (e non solo dall’occipitale);

  • assenza di un gradino zigomatico-mascellare;

  • espressione meno marcata dei tratti derivati del sistema masticatorio

P. r. ukusa differisce da P. r. robustus proprio per via del sistema masticatorio, forse in risposta a cambiamenti ecologici. Se fosse stato applicato il PSC, forse sarebbe stato necessario creare una nuova specie, che avrebbe avuto la stessa rilevanza di H. longi e H. bodoensis.

Fonti:

  • de Queiroz, K. (2005). Different species problems and their resolution. BioEssays, 27(12), 1263–1269.

  • de Queiroz, K. (2007). Species concepts and species delimitation. Systematic Biology, 56(6), 879–886.

  • Martin, J. M., Leece, A. B., Baker, S. E., Herries, A. I. R., & Strait, D. S. (2024). A lineage perspective on hominin taxonomy and evolution. Evolutionary Anthropology: Issues, News, and Reviews, 33(2), 84–100