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Datare i fossili umani: dall’U-series all’ESR per comprendere l’evoluzione tra 2 milioni e 50.000 anni fa
Una tecnica di datazione come questa permette di stimare con maggiore precisione l'età dei fossili umani, anche senza collagene o contesto stratigrafico.
IL GENERE 𝙃𝙤𝙢𝙤DATAZIONE: DALLA TEORIA ALLA PRATICA
9/28/20254 min leggere
La paleontologia, e in particolar modo la paleontologia umana, sono branche scientifiche in continua evoluzione, anche grazie a moderne tecniche che si sono susseguite nel corso degli anni e che ci permettono di acquisire informazioni più specifiche, riducendo il margine di errore, soprattutto per quanto riguarda la datazione dei fossili. Diciamo che gli errori, assoluti e relativi, in questo campo sono una brutta bestia, ma stiamo incominciando ad avere risultati davvero interessanti.
In quest’articolo, intitolato "Direct dating of human fossils and the ever-changing story of human evolution", pubblicato su Quaternary Science Reviews, vengono esaminati i recenti progressi nelle tecniche di datazione diretta dei fossili umani, con particolare attenzione ai metodi basati sulla serie dell’uranio (U-series) — quindi come e quando decadono certi isotopi — e sulla risonanza di spin elettronico (ESR). La risonanza di spin elettronico (ESR o EPR) è una tecnica spettroscopica che studia l’interazione tra il momento magnetico di spin di un elettrone e un campo magnetico esterno. Si usa principalmente per analizzare specie paramagnetiche, ovvero molecole che contengono uno o più elettroni spaiati. Questi metodi consentono di determinare l’età dei fossili senza fare affidamento esclusivo sul contesto stratigrafico circostante, spesso incompleto o difficile da analizzare.
L’articolo discute come l’applicazione di queste tecniche abbia portato a revisioni significative nella nostra comprensione della cronologia dell’evoluzione umana. Ad esempio, l’uso della datazione diretta ha permesso di rivedere l’età di alcuni fossili chiave, influenzando le interpretazioni sulle migrazioni e sull’evoluzione delle specie umane. Tuttavia, l’articolo sottolinea anche le sfide associate a questi metodi, come la necessità di campioni ben conservati e le potenziali incertezze legate alla contaminazione o alla complessità dei processi di fossilizzazione.
Oltre alle metodologie citate prima, alcune possono aiutare tantissimo, come la datazione al radiocarbonio (o del carbonio-14), che è applicabile solo nel caso in cui sia presente collagene o comunque materia organica. Si possono ottenere stime affidabili e precise, almeno fino a circa 50.000 anni. In realtà, però, è meglio non sottovalutare la datazione diretta dei fossili (ESR e U-series), proprio perché sono le più affidabili quando bisogna studiare un reperto fuori dal contesto geologico e stratigrafico.
Ma quali sono altre metodologie affidabili? Vediamone alcune:
Metodi legati alla luminescenza (OSL, TL, ISRL, ecc.), che possono essere applicati soprattutto in contesti carsici;
Single-grain o small-aliquot: identifica la miscelazione di granuli non riscaldati (quelli che presentano una data “sballata”). È indispensabile per stringere l’intervallo cronologico in assenza di radiocarbonio. Servono a misurare la “luce” emessa da grani minerali (quarzo o feldspato) quando vengono stimolati, indicando da quanto tempo non sono stati esposti alla luce o al calore. Servono anche a individuare contaminazioni nei sedimenti, cioè granuli “fuori posto” che non sono stati resettati (cioè non hanno subito esposizione alla luce o al calore prima della sepoltura). Questo è importante, perché se mescoli granuli “giovani” e “vecchi”, l’età media risulta sbagliata. Il metodo single-grain aiuta a separare i grani “giusti” da quelli “fuori posto”, migliorando la qualità della datazione;
Ar/Ar in contesti vulcanici: estremamente affidabile e più preciso per età crescenti, superiori a quelle del radiocarbonio. Bisogna fare attenzione alla possibile ri-deposizione di tufi (es. Ngandong);
U-series su materiali faunistici: producono soltanto stime di età minima. Sono utili per escludere intrusioni o rimaneggiamenti, mentre il vero limite superiore va fissato con metodi indipendenti (Ar/Ar, luminescenza, ecc.);
U-series + ESR su denti: permettono di fornire età quasi specifiche e precise.
Insomma, gli autori suggeriscono che la strategia ottimale è quella di affidarsi al radiocarbonio per fossili antichi fino a circa 50.000 anni, di usare metodologie legate alla luminescenza quando si studiano i sedimenti, la metodologia Ar/Ar quando si hanno tra le mani sedimenti vulcanici, e di utilizzare U-series ed ESR sui denti ma solo se non è possibile effettuare analisi con il radiocarbonio o con la luminescenza.
Ora entriamo nel vivo dell’evoluzione umana. Utilizzare la metodologia U-series per datare fossili umani è, e sarà, sicuramente la prassi. Anche perché ci aiuta a capire meglio alcuni fenomeni biologici, geologici e anche paleontologici:
Dalle analisi emerge che l’evoluzione umana è molto complessa e intricata: infatti, negli ultimi 2 milioni di anni sono coesistiti più lignaggi umani, e 4 di essi sopravvissero almeno fino a oltre 100.000 anni fa circa;
Homo sapiens, o perlomeno il suo lignaggio, potrebbe essere più antico di quanto ipotizzato, in quanto si evolve almeno tra 1 milione e 100.000 anni circa in Africa. Attualmente la documentazione indica che i primi Homo sapiens comparvero circa 300.000 anni fa, ma la documentazione è scarsa e disomogenea;
Potrebbero esserci stati fenomeni di introgressione che hanno coinvolto la nostra specie da parte di lignaggi africani, come quello a cui appartenevano i resti rinvenuti a Kabwe. Alcuni di essi potrebbero essersi differenziati ed altri mescolati occasionalmente, contribuendo limitatamente al genoma moderno;
L’ultimo antenato comune tra Sapiens, Neanderthal e Denisova è datato a circa 765-550 mila anni secondo le analisi del DNA, mentre le morfologie indicano circa 1 milione di anni;
Ancora non si riesce a collocare bene specie quali H. naledi e Homo heidelbergensis. Bisogna trovare più fossili;
L’uomo di Denisova si estende, a livello cronologico, almeno tra i 300 e i 50 mila anni. Questo se dovessimo considerare alcuni resti come attribuibili ai denisoviani: Penghu, che possiede un’età maggiore di 150 mila anni, e Harbin, che possiede un’età compresa tra i 148 e i 309 mila anni;
Le specie insulari quali Homo floresiensis e Homo luzonensis del Sud-est asiatico potrebbero essere esistite almeno fino a 50-70 mila anni fa, e questo comporterebbe anche un probabile incontro con H. sapiens, che a quel tempo aveva già raggiunto l’Australia.
In conclusione, si può dire che le metodologie di datazione diretta sono un ottimo strumento perché confermano cronologie già note, come quelle di Mata Menge e di Gran Dolina, e hanno permesso di accettare le revisioni di alcune età come quelle di Kabwe 1, Rising Star, ecc. Inoltre, è stato possibile anche fare “scoperte inattese”. Per esempio, i resti attribuiti ad Apidima 1 (Callao Cave), che potrebbe essere il resto più antico di Homo sapiens con un’età maggiore di 200 mila anni.
Soprattutto, applicare la U-series (date/età minime) è vantaggioso per tanti motivi. In primis, permette di escludere intrusioni o ricontaminazioni, e deve essere sempre accompagnata da metodi indipendenti per calcolare il limite superiore, come per esempio Ar/Ar o luminescenza. In futuro, se si utilizza la U-series, si potrebbero risolvere alcune problematiche come quelle dei “calciti sporchi” e dei rivestimenti argillosi, che in qualche modo possono influire sulla datazione. Anche grazie all’eliminazione di questi residui, si potrebbero studiare alcuni fossili dal punto di vista proteomico e paleogenetico, come per i resti in Asia orientale, permettendo così di raccogliere qualche dato in più anche nell’Africa centrale e occidentale.
Grün, R., & Stringer, C. (2023). Direct dating of human fossils and the ever-changing story of human evolution. Quaternary Science Reviews, 322, 108379.
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