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brown wooden statue near green plant

Gli ultimi superstiti

I mammut li associamo sempre alla preistoria, eppure gli ultimi individui non sono così...antichi!

PROBOSCIDEAPALEOBIOGEOGRAFIA: NANISMO INSULARE

9/27/20253 min leggere

I mammut li associamo sempre alla preistoria, e in effetti è uno dei protagonisti indiscussi del Pleistocene, sia perché appartenente alla cosiddetta megafauna, sia perché è stata una delle principali prede dei nostri antenati, sia a livello alimentare che per altri scopi come ornamenti, pellicce, strutture per gli insediamenti ecc.

Alla fine del Pleistocene assistiamo all’estinzione della megafauna, ma il mammut, se vogliamo, è stato uno degli ultimi superstiti, in quanto sopravvisse per almeno altri 6000-7000 anni, parallelamente allo sviluppo di grandi civiltà come quella minoica, degli Assiri, dei Babilonesi e degli Egizi. Per dire: quando venne costruita la piramide di Cheope, nel 2550 a.C. circa, i mammut erano ancora in vita. Ma andiamo con ordine.

In questo studio sono stati analizzati 21 genomi di mammut lanoso per capire qual è stata la causa della loro estinzione e la “causa” della loro sopravvivenza (prolungata) sull’isola di Wrangel, un’isola dell’oceano Artico posta a nord-est della Siberia. In realtà la questione mammut è complessa, in quanto vissero su quell’isola sia il mammut lanoso che il mammut nano, con quest’ultimo “nome” che si riferisce prettamente ai mammut di taglia ridotta che vissero sull’isola (nanismo insulare), quindi parleremo in generale di mammut lanoso.

Si trattò quindi di una popolazione isolata dal resto dei mammut che sul continente si estinsero. Quindi, dal punto di vista genetico, ci si aspetta fenomeni quali effetto fondatore, colli di bottiglia, deriva genetica ecc. L'isolamento sull’isola di Wrangel avvenne circa 10.000 anni fa, a causa dell’innalzamento del livello del mare che non permise ai mammut di poter ritornare sul continente. I risultati indicano che l’estinzione avvenne circa 4000 anni fa, e la popolazione era relativamente piccola.

Tra i campioni analizzati abbiamo alcuni genomi di individui “pre-bottleneck”, cioè quelli che non hanno subito il cosiddetto “collo di bottiglia”, datati circa 12.200 anni, ed altri “post-bottleneck” (datati tra i 9.200 e i 4.300 anni).

L’isolamento, come ben sapete, comporta delle conseguenze dal punto di vista genetico. Infatti si assiste a un calo di eterozigosi di circa il 40%, con un calo continuo ma più lento durante la permanenza della popolazione sull’isola. Assistiamo, di conseguenza, anche a un aumento dell’inbreeding (incrocio tra consanguinei) dal 10 al 41,6% dopo l’isolamento della popolazione sull’isola (dopo il collo di bottiglia). In una prima fase, quella successiva al collo di bottiglia, si verificano molti più accoppiamenti tra parenti stretti, mentre nei millenni successivi si hanno accoppiamenti anche tra individui distanti (e non solo tra parenti stretti). E non dimentichiamoci anche di altri “eventi” biologici come le delezioni omozigoti, nel quale si assiste a un aumento medio del 36% nelle delezioni omozigoti post-bottleneck, con il valore che diventerà più stabile nei successivi millenni (legato alla perdita di eterozigosi).

Sono state effettuate simulazioni demografiche e, da quel che si evince, con un collo di bottiglia severo, quindi con la presenza di soli 8 individui, ci sia stato poi un recupero dal punto di vista demografico con l’aumento fino a 200-300 individui entro 20 generazioni, per poi avere una certa stabilità per circa 6000 anni prima dell’estinzione.

Dal punto di vista della conservazione, in generale si capisce che il recupero demografico di una popolazione non corrisponde necessariamente a un pieno recupero genetico. Questo perché le mutazioni dannose continuano ad accumularsi a un ritmo lento. Per quanto riguarda proprio i mammut, nei 50.000 anni prima dell’estinzione, la popolazione locale mostrava una certa stabilità genetica (eterozigosi e inbreeding costanti) anche durante eventi climatici estremi come il Bølling-Allerød (14.7–12.9 ka BP). Non vi è stato nessun cambiamento significativo nella diversità genomica. Il primo vero cambiamento appare solo durante l’isolamento sull’isola di Wrangel circa 10.000 anni fa, popolata probabilmente da un branco di mammut composto da circa 8 individui.

Una popolazione così piccola rischia molto dal punto di vista genetico, perché, come detto prima, possiamo assistere ad accumuli progressivi di mutazioni deleterie (mutational meltdown), a inbreeding (riduzione della fitness) e alla perdita di eterozigosi, quindi perdita di caratteristiche adattative. Però, paradossalmente, nessuno di questi processi ha in qualche modo intaccato la popolazione: non c’è nessun declino genomico accelerato nel tempo, in quanto la popolazione dopo il collo di bottiglia si è ripresa rapidamente, ha mantenuto una certa stabilità demografica per circa 6000 anni, e successivamente sono diminuiti drasticamente gli accoppiamenti con parenti stretti (fratelli e/o cugini di primo e secondo grado).

Quindi i mammut della ricerca, datati circa 4.333 anni fa, non mostrano nessuna evidenza di un collasso genetico, così come nessun picco di inbreeding o un aumento del carico mutazionale, e di conseguenza si arriva a un primo risultato: non si sono estinti per via di un crollo genetico progressivo.

Si tratta, a livello genetico, di un’estinzione improvvisa, ma l’assenza di evidenze archeologiche esclude l’uomo, che ha lasciato qualche traccia solo qualche secolo più tardi. Le cause dell’estinzione possono essere tre:

  • Malattia o evento ambientale improvviso;

  • Tipping point genetico: mutazioni che nel corso di poche generazioni diventano deleterie;

  • Una concatenazione di eventi ecologici e genetici.

Fonte: Marianne Dehasque et al., Cell, Volume 187, Issue 14, p3531–3540.e13, July 11, 2024. Temporal dynamics of woolly mammoth genome erosion prior to extinction.