Evolution never sTOPS!

Quanto hanno inciso i geni neanderthaliani sulla neurodiversità moderna e sulla nostra evoluzione in generale?

I geni neanderthaliani, acquisiti attraverso un processo chiamato introgressione, hanno influenzato tantissimi aspetti del Sapiens.

OMININI: INCROCI E GENETICASAPIENS: EREDITÀ "ESTERNE"

9/24/20255 min leggere

Arrivati al 2025, abbiamo tantissime prove relative agli accoppiamenti Neanderthal-Sapiens e degli eventi, fortuiti e relativamente rari, tra le due specie, che, attraverso un processo biologico chiamato introgressione, si sono “rubate a vicenda” i geni, in quanto gli individui ibridi fertili non si accoppiavano tra di loro, ma con uno dei due parentali (con uno degli individui delle due popolazioni non ibride). E senza citare tutti gli studi, anche perché sono tanti, possiamo dire che durante il Paleolitico medio-superiore le popolazioni eurasiatiche possedevano circa il 2% di DNA neanderthaliano, con l’ultimo evento di introgressione che avvenne tra Sapiens anatomicamente moderni circa 65.000–47.000 anni fa. E ciò che è interessante è che anche popolazioni africane hanno ricevuto geni neanderthaliani, anche se in modo indiretto, grazie a una sorta di “migrazione di ritorno” (o meglio, varie migrazioni di Sapiens che possedevano geni neanderthaliani provenienti dall’Eurasia).

Questo per dire che, in un modo o nell’altro, all’interno dell’attuale popolazione moderna ci sono un po’ di geni neanderthaliani in giro, e alcuni di essi confermano ulteriormente il loro ruolo nello sviluppo cerebrale, e che sono resistiti durante questi fenomeni di introgressione.

Ma prima di andare avanti con la spiegazione di questo studio del 2024, dobbiamo fare prima la conoscenza con il termine SNP (Single Nucleotide Polymorphism). Quest’ultimo è una variazione genetica usata per studiare le differenze tra popolazioni, tracciare migrazioni antiche, stimare parentele e analizzare adattamenti evolutivi. Sono come "marcatori genetici" per confrontare gruppi umani. In sostanza, esistono SNP neanderthaliani in geni neurali associati a disabilità intellettive, autismo, epilessia e a una incapacità linguistica.

In sostanza, possiamo dire che i geni neanderthaliani non sono solo tutt’ora presenti nel nostro genoma, ma che svolgono un ruolo durante lo sviluppo del cervello. Per capire come queste varianti neanderthaliane nei disturbi del neurosviluppo siano state studiate, varie popolazioni odierne sono state analizzate che, purtroppo e per comodità, sono state suddivise in Black non-Hispanic, White Hispanic e White non-Hispanic.

Sono stati identificati 25 SNPs (rari e comuni) significativamente arricchiti in individui autistici, mentre alcune varianti Neanderthal sono state associate a fenotipi comorbidi (epilessia, ID, regressione linguistica), anche se non arricchite come nel caso dell’autismo.

Ciò che emerge è che queste varianti possono essere leggermente dannose e che, in generale, tendono a essere “ripulite” o eliminate (purifying selection), e non tutte le varianti che abbiamo ereditato dai Neanderthal sono legate all'autismo. Solo alcune specifiche "porzioni" di questo DNA sembrano essere correlate.

Diciamo che è “colpa” del Neanderthal, a causa di come si sono evoluti. Sapiens e Neanderthal discendono dallo stesso antenato comune, solo che, quando si verifica un evento di speciazione, le popolazioni cominciano a presentare differenze dal punto di vista genetico e genomico, e le differenze si evidenziano grazie proprio alle nuove mutazioni che non sono condivise tra le due specie (uniche), e nel caso del Neanderthal sembra che fossero presenti più mutazioni che svolgevano un ruolo nella regolazione sia del cervello che del corpo in generale. Ma ciò non sembra essere un problema: le mutazioni dannose vengono eliminate in continuazione, anche quelle ereditate dal Neanderthal.

Ma non tutti possiedono la stessa percentuale di DNA neanderthaliano, quindi ogni persona, diciamo, è un caso a parte, e il fenomeno visto in precedenza deve essere considerato dal punto di vista popolazionistico. Quindi, un arricchimento di SNP, o comunque la presenza di alcune di queste varianti, comporta alcune particolari caratteristiche. Per esempio, per ciò che concerne la connettività cerebrale e la neuroanatomia, il DNA neanderthaliano è legato a una ridotta globularità cranica, con il cranio che si presenta simile ai crani arcaici allungati, e l’arricchimento Neanderthal sarebbe legato a una maggiore connettività tra solco intraparietale (IPS) e corteccia occipitale/fusiforme, e a una minore connettività nella default mode network (una rete cerebrale attiva a riposo, coinvolta in riflessioni personali, memoria e pianificazione). Questi stessi pattern sono stati osservati anche in individui autistici: sottoconnettività nella default mode network, e sovraconnettività nelle aree visive. Durante compiti visivi e matematici, bambini autistici mostrano maggiore attivazione in fusiforme e occipitale.

Ma è tutta colpa del Neanderthal? Non proprio. Sembra che il “carico neanderthaliano” sia minore nei soggetti con schizofrenia, mentre nei soggetti autistici “White Hispanic” questo “carico” è elevato e sono maggiormente presenti varianti neanderthaliane. E lo stesso discorso vale per i “Black non-Hispanic”. Quindi, l’autismo non è legato necessariamente a varianti neanderthaliane, ma in generale a varianti selezionate (o meglio, non è solo colpa delle varianti neanderthaliane).

I Neanderthal vivevano in piccoli gruppi ed erano caratterizzati da segmenti di genoma altamente omozigoti (segno di piccoli pool genetici). In generale, la dimensione del gruppo sociale nei primati predice le dimensioni neocorticali, e i Neanderthal mostravano reti sociali più regionali e meno integrate rispetto agli AMH europei. Alcuni comportamenti autistici moderni (es. ridotta socialità) potrebbero riflettere caratteristiche Neanderthal. Questa ipotesi è nota informalmente come “Teoria Neanderthal dell’Autismo” ("Neanderthal Theory of Autism").

Gli individui autistici spesso eccellono nel processamento visivo, cioè come il nostro cervello interpreta e dà un senso alle informazioni che riceviamo attraverso la vista, e nelle abilità spaziali, ovvero la capacità di comprendere, ragionare e manipolare oggetti e relazioni nello spazio. I Neanderthal, per esempio, utilizzavano tecniche complesse come la Levallois, utilizzavano le piume come decorazione e non mancava l’arte rupestre. Erano capaci di pensare in modo astratto, ma le capacità simboliche non sempre equivalgono o sono associate a un linguaggio verbale. Per esempio, i bambini autistici savant (una sindrome che spesso è associata al disturbo dello spettro autistico) sono artisti eccezionali, ma presentano qualche deficit nella comunicazione verbale. Non è detto che il Neanderthal non sapesse parlare, anzi, esistono tante prove che dimostrano il contrario, ma il risultato che emerge è che alcuni SNP neanderthaliani associati ad autismo potrebbero essere sottoposti a una selezione positiva debole.

Questo perché alcuni geni associati ad autismo sono anche collegati ad alta intelligenza, e in generale gli autistici mostrano una maggiore intelligenza fluida (la capacità di ragionare, risolvere problemi e pensare logicamente in situazioni nuove, indipendentemente dalle conoscenze pregresse) rispetto a condizioni neurologiche atipiche testimoniate in altri studi.

I ricercatori fanno notare come i fratelli e le sorelle di persone autistiche (non autistici) mostrano schemi cognitivi simili a quelli degli autistici, in particolare un punteggio di QI nelle performance (abilità pratiche e visuo-spaziali) che è superiore al QI verbale (abilità linguistiche). Questo suggerisce che ci possono essere tratti cognitivi condivisi all'interno della famiglia. Le famiglie con membri che studiano discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) tendono ad avere una maggiore incidenza di membri autistici rispetto a quelle delle discipline umanistiche. Questo potrebbe indicare una correlazione tra interessi accademici e la presenza di tratti autistici, suggerendo che le abilità analitiche e logiche siano più comuni in questi contesti.

Insomma, è probabile che l’introgressione non sia stato solo un evento nel quale sono stati “rubati i geni a vicenda”, ma un evento multiplo che ha poi influenzato enormemente il nostro modo di pensare, oltre ad influenzare il nostro corpo e il nostro genoma. Infatti, gli autori suggeriscono che l’arte, per esempio, potrebbe essere stata influenzata da ciò. Infatti, al momento, l’arte rupestre più antica è quella presente nella Blombos Cave in Sudafrica, datata circa 73.000 anni. E ciò vale anche per il commercio, la nascita di nuovi strumenti, l’organizzazione dello spazio domestico. Insomma, gli autori sostengono che questa rivoluzione spazio-temporale coinciderebbe con l’ibridazione Sapiens-Neanderthal, con l’ibridazione che potrebbe aver stimolato cambiamenti cognitivi, con tali cambiamenti che potrebbero avere effetti fino ad oggi sull’intelligenza e sui disturbi del neurosviluppo.

Fonte: Rini Pauly, Layla Johnson, F. Alex Feltus & Emily L. Casanova, Enrichment of a subset of Neanderthal polymorphisms in autistic probands and siblings, Molecular Psychiatry 29:3452–3461 (2024).